Anapanasati

“La Medidatizione come Atto quotidiano”

Il Sutra Anapanasati, o Sutra sulla Piena Consapevolezza del Respiro, tratta dei sedici esercizi per la pratica della respirazione cosciente. È un sutra fondamentale e di grande bellezza. Esistono molti sutra importanti, ma avvicinarsi ad essi senza aver prima studiato il Sutra Anapanasati è come tentare di salire in cima ad una montagna senza l’aiuto di un sentiero già tracciato.
La diffusione di questo sutra in Vietnam è iniziata nel I secolo dopo Cristo, ma il primo commento, opera del maestro Tang Hoi, risale al III secolo ed è in cinese. Dell’Anapanasati, infatti, esistono diverse versioni nel Canone cinese, ad esempio nel Samyukta Agama, oltre alla versione del Canone pali, contenuta nel Majjhima Nikaya.
Purtroppo il testo cinese, intitolato “Il Grande Sutra sul Respiro”, non è chiaro quanto il sutra corrispondente in pali, anche se, ad un attento confronto, dopo oltre 2.500 anni, le differenti traduzioni appaiono sovrapponibili per circa il 90 per cento. E questo è meraviglioso.
Tuttavia i sedici esercizi esposti nel Canone Pali sono molto più efficaci. Per questa ragione ho tradotto in vietnamita e in inglese quest’ultima versione. Il metodo della presenza mentale attraverso il respiro consente di raggiungere visione profonda e liberazione.
Sono certo che il Buddha stesso, anche dopo aver raggiunto l’illuminazione, ha continuato a seguire il proprio respiro in consapevolezza. Respirare in consapevolezza significa essere sempre padroni di se stessi, essere il conducente della propria automobile, sapere come prendersi cura di sé in modo stupendo. Anche se diventerete dei Buddha dovrete continuare a nutrire con cura corpo e mente: i primi quattro sono focalizzati sul corpo; i secondi quattro sulle sensazioni, da intendersi come una formazione mentale; i successivi quattro sulla mente, che equivale ad altre quarantanove formazioni mentali; gli ultimi quattro sono focalizzati sui fenomeni, ovvero le percezioni, la cinquantunesima formazione mentale. In questo senso è possibile tracciare un parallelo con il Sutra sui Quattro Fondamenti della Presenza Mentale, che ci invita a mettere in pratica la contemplazione del corpo, delle sensazioni, della mente e degli oggetti della mente.
Nel primo esercizio del Sutra Anapanasati riconosciamo una cosa semplice e miracolosa:
“Inspirando, so che sto inspirando.
Espirando, so che sto espirando”.

Riportate la vostra mente al corpo e al respiro, e all’improvviso vi rendete conto: “Oh, sto inspirando, sto espirando”. Riconoscete semplicemente il vostro respiro. Dire “so che sto…” significa che state portando tutta la vostra attenzione, tutta la vostra mente, sull’inspirazione e sull’espirazione.
Poiché l’attenzione della vostra mente è tutta concentrata sul respiro, ecco che senza sforzo potete lasciare andare le preoccupazioni, la rabbia, l’avidità, la paura, la gelosia. La presenza mentale è come una guardia che controlla i cancelli di una fortezza e che, quando vede una persona che entra o esce dalla fortezza, sa se si tratta di una persona del posto o di uno straniero. La presenza mentale è la guardia che sa che state inspirando e sa che state espirando.
La vostra mente sa riconoscere se una certa energia è salutare o nociva. Andando avanti, sviluppando sempre di più la pratica, saprete riconoscere “questa è gelosia, quella è compassione”, ma all’inizio esercitate semplicemente la mente a riconoscere il respiro.
Alcuni mettono una mano sull’addome e vi portano tutta l’attenzione: “Il mio addome si solleva (inspirando), il mio addome si abbassa (espirando)”. Concentrando la vostra attenzione sul sollevarsi e l’abbassarsi dell’addome, tutti gli altri pensieri si arrestano.
Quando ricevete delle notizie che vi agitano, e non riuscite a dormire, portate tutta la vostra attenzione al movimento dell’addome: consentirete così al cervello di riposare, all’agitazione e all’irritazione di calmarsi. Continuando questo esercizio anche per soli 5, 10 o 15 minuti riuscirete a conciliare un sonno profondo.
Il secondo esercizio consiste nell’osservare e prendere atto della lunghezza del respiro:
“Inspirando un lungo respiro, so che sto inspirando un lungo respiro.
Espirando un lungo respiro, so che sto espirando un lungo respiro”.

Oppure:
“Inspirando un respiro breve, so che sto inspirando un respiro breve.
Espirando un respiro breve, so che sto espirando un respiro breve”.

Ci sono dei praticanti che cercano di forzare e modificare il proprio respiro. Il Buddha ha detto che questo non è il modo corretto. Non pensate che un respiro lungo sia meglio di un respiro breve, o viceversa.
Prendete soltanto atto della lunghezza del vostro respiro per quella che è naturalmente. A volte il fatto che il respiro sia corto è un bene, come quando, dopo aver fatto un grosso sforzo, abbiamo bisogno di fare dei respiri più brevi. Altre volte, invece, ci può far bene stenderci e fare dei respiri lunghi e profondi. Un respiro lungo va bene, un respiro breve va bene, tutto dipende da cosa è meglio per il corpo e la mente in quel momento.
Siate dunque semplicemente consapevoli del vostro respiro, senza cercare di intervenire su di esso. Non fate nulla, se non osservare e riconoscere, senza reprimere o forzare. Quando c’è il sole, la sua luce non fa altro che risplendere sulla terra. Non cerca di diffondere i suoi raggi ovunque e non obbliga la terra ad assorbirli. Il sole splende e basta.
Cerchiamo di praticare in modo totalmente non violento, in modo amorevole verso il nostro respiro. Quando siete seduti con la schiena curva non dovete far altro che riconoscere questo fatto: con naturalezza il vostro corpo tornerà nella posizione corretta. Non dobbiamo dire quanti secondi o quanti metri è lungo il respiro! Dobbiamo solo esserne consapevoli durante tutta la sua durata: cominciamo dall’inizio dell’inspirazione e teniamo la mente insieme al respiro fino alla fine. Quando espiriamo è lo stesso: seguiamo da vicino il respiro finché non ha termine. Il praticante deve dedicarsi diligentemente a questi due primi esercizi, in modo da padroneggiarli.
Il terzo esercizio consiste nell’essere consapevoli del corpo:
“Inspiro e sono consapevole di tutto il mio corpo,
espiro e sono consapevole di tutto il mio corpo”.

Inspirando sono consapevole dell’aria che entra e riempie i miei polmoni. Posso sentire l’espansione e la contrazione del diaframma, sento che il respiro tocca ogni parte del corpo. Il respiro è connesso ai movimenti del corpo, ma nel Buddhismo esso è inteso anche come parte della mente. Quando camminate siete consapevoli di ogni vostro passo e quando alzate una mano portate l’attenzione al sollevarsi della mano.
Se alzando la mano seguite il respiro, questo diventa elemento di unione tra corpo e mente. Seguendo il proprio respiro si possono unire corpo e mente per cinque o dieci minuti, e anche più, mentre se non siamo consapevoli del respiro la mente avrà la tendenza a divagare. Quando corpo e mente sono insieme potete guardare in profondità, mentre se la mente è lontana e insegue i pensieri è difficile ottenere sufficiente concentrazione. E senza concentrazione vediamo le cose in modo superficiale.
Alcuni insegnanti di Dharma del passato interpretavano questo esercizio come: “Sono consapevole dell’intero corpo del respiro”. Non sono d’accordo con questa interpretazione perché si tratterebbe di una ripetizione del secondo esercizio, che consiste già nella consapevolezza della lunghezza del respiro, “il corpo del respiro”. Questa interpretazione parte dal presupposto che se siamo consapevoli di tutto il corpo, l’oggetto della nostra concentrazione diventa troppo vasto: ci sono il cuore, il fegato e tutti gli altri organi. Per questo preferisce limitare la concentrazione al “corpo del respiro”. Ma questo, a mio avviso, è sbagliato. Intere generazioni di praticanti hanno commesso questo errore.
È estremamente importante essere consapevoli del proprio corpo. Il fegato, il cuore, gli occhi, le orecchie, l’intestino sono tutti elementi molto importanti della nostra pratica. Dobbiamo essere in pace con il nostro corpo, trattarlo in modo amichevole. Abbiamo invece spesso la tendenza ad odiarlo, a pensare che il corpo sia nemico della nostra spiritualità.
Il quarto esercizio consiste nel calmare il corpo:
“Inspiro e calmo e rassereno l’intero corpo.
Espiro e calmo e rassereno l’intero corpo”.

Il corpo può essere agitato, il fegato o il cuore possono non essere in buone condizioni. Nel quarto esercizio seguiamo il respiro e calmiamo il corpo: calmiamo il fegato, il cuore, le palpebre, gli occhi, l’intestino, ogni parte del corpo.
Se praticando non cercate di calmare il corpo, come potete calmare la mente? Per prima cosa, quindi, entrate in contatto con il corpo e calmatene ogni parte. In seguito calmerete ogni parte della mente. A volte abbiamo così tante preoccupazioni, ansie, paure, che il nostro corpo diventa teso, si irrigidisce ed è causa di molti disturbi. Non si tratta di malanni gravi, ma di piccoli problemi legati alla non buona condizione della mente che nuoce al nostro organismo.
Dobbiamo, quindi, per prima cosa ritornare al corpo: “Sei lì mio piccolo cuore, so che lavori duro e io non ti presto attenzione. Fumo, bevo troppo, e così ti faccio soffrire”. Sorridiamo al cuore o al fegato, sappiamo che sono in difficoltà e che stanno lanciando un segnale d’aiuto. Non pratichiamo il calmare solo a parole: abbiamo bisogno di sentire che ogni parte del nostro corpo è davvero in pace.
Arriviamo ora ai quattro esercizi che hanno a che vedere con le sensazioni: il quinto è sulla gioia, il sesto sulla felicità, il settimo è sulle attività della mente, mentre nell’ottavo calmiamo le attività della mente e le sensazioni. Iniziamo dal quinto:
“Inspiro e provo gioia. Espiro e provo gioia”.
Potete praticare questo esercizio scrivendo una lista di tutte le cose che vi danno gioia. Ma, anche qui, non dite “inspiro e provo gioia” solo a parole. Dovete sentire davvero in voi questa gioia.
Inspirando non ho il cancro, non ho avversione, sono ancora molto giovane, in buona salute, sono così fortunata da essere in contatto con la pratica. Fate una lista scritta di tutte le cose positive in voi e attorno a voi, in modo da poter essere davvero in contatto con la vostra gioia e trarne nutrimento.
In Occidente le persone confondono l’eccitazione con la felicità. Molti giovani fraintendono e pensano che gioia e felicità siano la stessa cosa. Hanno molta eccitazione, ma non sono veramente felici. In realtà gioia e felicità sono due cose diverse.
Per fare un esempio, se ci siamo persi in un deserto e all’improvviso vediamo in lontananza un’oasi, iniziamo a sentire gioia ed eccitazione perché sappiamo che presto avremo acqua da bere. Quando arriviamo a bere quell’acqua, l’eccitazione inizia a diminuire. Nella nostra gioia c’è un po’ di pace, perché ora stiamo bevendo davvero. Gustiamo realmente quella gioia: ecco, la felicità è assaporare fino in fondo quell’acqua, non è la gioia eccitata di quando stavamo pregustando quel bere.
Per essere felici dobbiamo vivere in profondità il momento presente. Respiriamo con gioia, consapevoli di avere già molte condizioni per la felicità. Entriamo in contatto con tali condizioni, rallegrandocene e vivendole con pienezza.
Il sesto esercizio consiste proprio nel godere concretamente delle cose meravigliose che abbiamo:
“Inspiro e mi sento felice. Espiro e mi sento felice”.
Inspirando entro in contatto con le condizioni di gioia, provo gioia. Espirando abbraccio la gioia, la assaporo, e la gioia diventa felicità. La gioia deve condurre alla felicità. La funzione della gioia e della felicità è quella di nutrirci, non di essere ragioni di sofferenza. Sono queste la gioia e la felicità sane, non la gioia e la felicità dei desideri dei sensi, come la gioia del potere, del sesso, della buona tavola.
Eppure ci sono persone che passano la giornata pensando solo cose negative su se stessi e sugli altri. E più pensano in questo modo più si arrabbiano, si sentono frustrate.
Per questo il Buddha ha insegnato: “Nutri te stesso con la vera gioia e la vera felicità”. La pratica del quinto e del sesto esercizio va fatta senza fretta. Vivete concretamente la gioia e la felicità che sono attorno a voi e in voi. Siate in contatto con i vostri meravigliosi occhi, che possono vedere il blu del cielo, il verde della vegetazione.
Potete ascoltare il canto della pioggia e degli uccelli, potete godere di molte cose! Per costruire la vostra felicità usate l’intelligenza. È vero, c’è sofferenza, ma entrate per prima cosa in contatto con le meraviglie della vita e nutritevene. Poi potrete guardare con più serenità ciò che non va bene e prendervene cura per trasformarlo.
La meditazione è cibo, la felicità è cibo. Se la meditazione seduta non dona pace e gioia, ciò significa che nella pratica c’è qualcosa che non va. Ci sono probabilmente degli ostacoli, prodotti dalla nostra mente, che impediscono di essere in contatto con le condizioni per la felicità. Queste ultime sono numerose, ma non riusciamo ad apprezzarle.
Quando succede questo dovremmo incontrare il nostro insegnante o i nostri amici spirituali e chiedere il loro aiuto per rimuovere quegli ostacoli. “Inspiro e provo gioia” è una pratica che andrebbe fatta ogni giorno, perché la gioia dà vita e conduce alla felicità. Inspirando, sono in contatto con le condizioni per la gioia, provo gioia. Espirando, abbraccio quella gioia. Ed essendo davvero in contatto con essa, la gioia diventa felicità.
Chiediamo anche ai nostri fratelli e sorelle nel Dharma come praticano, in modo da imparare dalla loro esperienza e migliorare ogni giorno la nostra pratica.
Nel settimo esercizio siamo consapevoli di tutte le sensazioni:
“Inspiro e sono consapevole delle sensazioni che sono in me.
Espiro e sono consapevole delle sensazioni che sono in me”.

Nel settimo esercizio pratichiamo la consapevolezza delle sensazioni, usando la presenza mentale per essere in contatto con ciò che sta accadendo. Se proviamo una sensazione gioiosa, siamo profondamente consapevoli di questa sensazione e così continuiamo a nutrirla. Ad esempio, se state mangiando un’arancia, siete davvero consapevoli del suo dolce sapore.
Se, però, mangiando quell’arancia siete gelosi o arrabbiati con qualcuno, il dolce spicchio d’arancia è come un fantasma, in quanto non lo potete assaporare pienamente. La presenza mentale può riguardare anche cose negative: un collega, ad esempio, vi offre dell’alcol e mentre bevete vi rendete conto del danno che può causare al fegato e alla mente.
Grazie alla presenza mentale potete iniziare a capire come rifiutare ciò che danneggia il vostro benessere. Se, invece, siete assaliti dalla gelosia, potete riconoscerla e dire: “Mia piccola gelosia, so che ci sei”, senza criticare o giudicare quella sensazione. In questo esercizio siete semplicemente consapevoli delle sensazioni: il dolce spicchio d’arancia, la gelosia, l’alcol. Se non lo foste, potreste berne molti bicchieri, o pronunciare parole crudeli a causa della vostra gelosia. Senza presenza mentale si possono fare molte cose dannose.
Essere consapevoli: è facile a dirsi, ma non è affatto una pratica semplice. Pratichiamo allora con una comunità in cui ci si sostenga l’uno con l’altro. Per riuscire a sostenere la presenza mentale di altri fratelli e sorelle nel Dharma, esercitate voi stessi alla piena consapevolezza di ciò che sta succedendo nel vostro corpo e nella vostra mente.
L’ottavo esercizio consiste nel calmare tutte queste sensazioni:
“Inspiro e calmo e rassereno le attività della mente in me.
Espiro e calmo e rassereno le attività della mente in me”.

È necessario mantenere calma qualsiasi sensazione, anche una sensazione di gioia. Perché nella gioia c’è eccitazione e quell’eccitazione deve essere calmata. Persino la felicità va calmata. Se poi in noi c’è una sensazione dolorosa, che deriva dalle nostre preoccupazioni, da rabbia, gelosia, disperazione, è davvero necessario riconoscere e abbracciare quella sensazione.
Questo esercizio consiste proprio nel calmare le sensazioni, nello stesso modo in cui si calma un bambino che ha il mal di pancia: ci rendiamo conto che ha male alla pancia, lo teniamo in braccio e lo calmiamo.
Come praticanti dovete sapere come fare, non dovete lasciar passare del tempo, permettendo alle sensazioni di distruggere il vostro corpo e la vostra mente.
Quando in voi c’è una sensazione, specialmente una sensazione dolorosa, dovete sapere come usare l’energia della presenza mentale per abbracciare quella sensazione, come una madre che abbraccia il suo bambino. Dicendo: “Sono qui, sono qui. La tua mamma è qui, la mamma è qui. Quindi non aver paura. Mi occuperò di te, abbraccerò la tua sofferenza”. Non scappate da quella sensazione! E quando riuscite ad abbracciarla, usate il metodo dell’inspirazione e dell’espirazione per calmarla.
Abbiamo visto che i primi quattro esercizi hanno come oggetto il corpo, mentre i successivi quattro sono centrati sulle sensazioni. Le sensazioni possono sorgere dal corpo o dalle percezioni. A volte abbiamo mal di testa o mal di stomaco, fenomeni che appartengono al corpo e che ci causano una sensazione dolorosa. Al contrario, se abbiamo dei vestiti caldi con cui coprirci e cibo a sufficienza sorge in noi una sensazione piacevole proveniente dal corpo.
Prendersi cura del corpo significa, quindi, procurarci delle sensazioni piacevoli. E lo stesso vale per le percezioni. Se ci prendiamo cura delle percezioni, ridurremo le sensazioni dolorose, anche fisiche, che provengono da esse. Le nostre percezioni erronee sono, infatti, la radice di innumerevoli sensazioni di carattere emotivo: rabbia, tristezza, paura, preoccupazione, desiderio.
Possiamo dire, dunque, che l’oggetto della seconda serie di quattro esercizi sono le sensazioni, che sono in relazione sia con il corpo che con le percezioni.
Passiamo ora agli esercizi dal nono al dodicesimo, focalizzati sulla mente. In questo caso per mente intendiamo le formazioni mentali. Dalla psicologia buddhista sappiamo che ci sono cinquantuno formazioni mentali. Le sensazioni e le percezioni sono due di esse. Ne rimangono, quindi, quarantanove.
La mente viene associata a queste ultime. Infine, gli esercizi dal tredicesimo al sedicesimo hanno per oggetto i dharma, i fenomeni, checolleghiamo alle nostre percezioni. Prendendoci cura delle percezioni possiamo trasformare completamente la grande sofferenza che ci procurano.
Nel nono esercizio siamo consapevoli delle formazioni mentali:
“Inspiro e sono consapevole delle mie formazioni mentali. Espiro e sono consapevole delle mie formazioni mentali”.
Come abbiamo detto, questo esercizio è diverso dal settimo, che prendeva in considerazione soltanto le sensazioni, mentre qui entrano in gioco tutte le formazioni mentali. Inspirando, sono consapevole, riconosco la formazione mentale che è presente in me in questo momento, che si tratti di rabbia, tristezza, gelosia o avversione. La riconosco e la chiamo per nome: orgoglio, sospetto, visione erronea, avidità.
Questo è davvero importante: le formazioni mentali vanno prima chiamate per nome e poi abbracciate.
Nel decimo esercizio rassereniamo la mente:
“Inspiro e calmo e rassereno la mente.
Espiro e calmo e rassereno la mente”.

Come è possibile rendere più gioiosa una formazione mentale già presente in noi? Come possiamo fare sorgere delle formazioni mentali positive, benefiche? Immaginiamo di disegnare un cerchio e di dividerlo in due. La parte inferiore rappresenta la coscienza deposito, mentre nella parte superiore individuiamo la coscienza mentale. Sappiamo che la coscienza deposito custodisce tutti i semi.
Quando questi semi si manifestano diventano formazioni mentali e dobbiamo esserne consapevoli. Come possiamo far comparire delle formazioni mentali positive nella nostra coscienza mentale? Abbiamo dei semi buoni in noi: è possibile individuarli e aiutarli a manifestarsi per rasserenare la mente? In noi ci sono i semi della gioia, della felicità, dell’amore, del perdono: ci sono stati trasmessi dai nostri genitori, dai nostri insegnanti, dai nostri patriarchi. Dobbiamo aiutarli a crescere ogni giorno.
Nel decimo esercizio cerchiamo proprio di entrare in contatto con questi semi, per permettere loro di manifestarsi come formazioni mentali. Se lasciamo che siano soltanto i semi della tristezza a manifestarsi, questi prenderanno tutto lo spazio della nostra coscienza mentale, soffocando i semi positivi. Non ci sarà più posto per la gioia.
Permettiamo allora ai semi di felicità di germogliare ogni giorno, nutrendoli con l’ascolto dei discorsi di Dharma, con la pratica, con la meditazione camminata, respirando in consapevolezza, leggendo i sutra.
Nell’undicesimo esercizio concentriamo la mente:
“Inspiro e concentro la mente.
Espiro e concentro la mente”.

Concentrare la mente significa che quando si manifesta in noi una formazione mentale usiamo la consapevolezza per abbracciarla. Quando c’è presenza mentale, c’è anche concentrazione.
Se abbracciamo più a lungo una formazione mentale, positiva o negativa, riusciamo senza sforzo a guardare in profondità nella sua natura, generando in noi saggezza, comprensione risvegliata. Non dobbiamo fuggire davanti a una formazione mentale, bensì trattarla con la stessa cura di un ricercatore che è consapevole dell’oggetto della sua ricerca, o come uno studente di matematica che fa sì che la concentrazione abbracci gli esercizi a cui si sta dedicando.
Se cerchiamo di fare degli esercizi di matematica mentre guardiamo la televisione non avremo sufficiente consapevolezza e concentrazione. Per riuscire a guardare nelle nostre formazioni mentali, nell’ansia, nella tristezza, nella gelosia, nella solitudine, dobbiamo entrare in uno stato di profonda concentrazione.
Sono emozioni che ci fanno soffrire e abbiamo bisogno di abbracciarle. La tendenza che abbiamo, invece, è opposta: vediamo che ci mettono a disagio e cerchiamo di sfuggirle. Ora, però, siamo determinati ad abbracciarle. A tale scopo usiamo la presenza mentale e la concentrazione. Se non le abbracciamo, se non le osserviamo, non potremo mai liberarcene. Se riusciamo a guardare, a riconoscere le formazioni mentali, e a vedere che sono la radice della nostra sofferenza, diventa più semplice lasciarle andare.
In questo consiste il dodicesimo esercizio:
“Inspiro e libero la mente. Espiro e libero la mente”.
Cosa vuol dire liberare la mente? “Inspirando mi libero, lascio andare la formazione mentale che è in me, espirando lascio andare la mia formazione mentale”. Le formazioni mentali, come l’avidità, l’avversione, il sospetto, l’orgoglio, sono corde che ci legano, corpo e mente, e ci rendono la vita infelice.
Quando riusciamo a guardare in profondità in queste formazioni mentali, ad abbracciarle e a lasciarle andare, allora scopriamo la felicità chiamata “liberazione della mente”. “Inspirando, concentro la mia presenza mentale e la mia attenzione sulla formazione mentale che è in me, la abbraccio con tenerezza”.
Se c’è concentrazione, la liberazione avviene in modo naturale, senza sforzo. La preghiera non c’entra. È questione di pratica quotidiana. Questi quattro esercizi centrati sulle formazioni mentali sono molto importanti. Non dovremmo dire: “Posso farcela di sicuro”. Abbiamo moltissimo da imparare a questo proposito: le formazioni mentali sono una pratica molto vasta da approfondire.
Ogni volta che una di esse emerge, dovremmo riuscire a chiamarla per nome e ad accettarne le cause. “Eccoti qui, ti chiami avidità, ti conosco da tanto tempo, sei una vecchia amica. Ben trovata!”. E le sorridete. Questo è il metodo per riconoscere le formazioni mentali. Date loro il benvenuto quando si manifestano.
Non permettete che arrivino e vadano via senza averle riconosciute, è molto importante! I dodici esercizi che abbiamo visto fin qui devono essere sviluppati a fondo e con diligenza. Dobbiamo praticarli e condividere la nostra esperienza con gli altri, per aiutare chi arriva dopo di noi a capire come si pratica. Passiamo ora ai quattro esercizi che riguardano i dharma o fenomeni. Grazie ad essi ci è possibile distruggere le percezioni erronee.
Il tredicesimo esercizio consiste nella consapevolezza dell’impermanenza:
“Inspiro e contemplo la natura impermanente di tutti i dharma (fenomeni).
Espiro e contemplo la natura impermanente di tutti i dharma (fenomeni)”.

Abbiamo in noi molti ostacoli dovuti all’ignoranza. Ci comportiamo come se dovessimo vivere un milione di anni, come se fossimo eterni, indistruttibili.
Abbiamo sentito le parole del Buddha, abbiamo ascoltato il nostro insegnante: entrambi ci hanno parlato dell’impermanenza. Sappiamo bene che potremo vivere al massimo cento anni. Pensiamo: quella persona ha avuto un incidente di macchina, quell’altra è in ospedale, quell’altra ancora ha il cancro, quella è morta. Ma crediamo che tutto questo non ci riguardi, viviamo questa specie di follia.
La nostra comprensione dell’impermanenza è molto superficiale: la vediamo solo come un’idea, una teoria, e agiamo nella vita quotidiana come se dovessimo esserci per sempre. Ma non è vero, non è così. La nostra vita è come un lampo, come una nuvola nel cielo.
Dovremmo concentrarci e guardare in profondità nell’impermanenza: vedere ogni passo, ogni respiro, ogni boccone di cibo alla luce dell’impermanenza. Non si tratta di qualcosa di negativo, di pessimistico. È la verità e va compresa bene, perché l’impermanenza è essenziale per la vita. Se piantiamo dei girasoli e vogliamo che crescano, l’impermanenza è indispensabile. Se il seme di girasole dovesse rimanere per sempre un seme, non esisterebbe il girasole. Il seme deve scomparire affinché il girasole appaia: ecco l’impermanenza. E poi, affinché ci siano nuovi girasoli, il girasole deve diventare vecchio e morire. Non dite “non mi piace l’impermanenza”, perché vorrebbe dire che non amate la vita. Impermanenza significa anche “non sé”. In termini di tempo, infatti, parliamo di impermanenza, mentre in termini di spazio parliamo di non sé.
Se riuscirete a vedere l’impermanenza e il non sé, vedrete l’interessere, la vacuità. In seguito potrete ottenere l’insight, la comprensione risvegliata dell’impermanenza. Vivrete nella luce, nel regno dell’Avatamsaka, il mondo di non nascita e non morte. L’impermanenza ci rende capaci di lasciare andare, e quando lasciamo andare, ci sentiamo leggeri, liberi. L’insight dell’impermanenza ci dà speranza, perché nulla resta uguale per sempre.
Eccoci ora al quattordicesimo esercizio:
“Inspiro e comprendo che i dharma (fenomeni) non sono degni di essere desiderati.
Espiro e comprendo che i dharma (fenomeni) non sono degni di essere desiderati.”.

Inspirando osservo in profondità la natura dei dharma e comprendo quanto non siano “degni di essere desiderati”. Il termine sanscrito è viraga, ovvero “non provare attaccamento e desiderio per qualcosa”. Dovremmo sapere che i dharma, i fenomeni oggetto delle nostre percezioni, sono impermanenti. Funzionano come esche, ma non sono degni del nostro desiderio, anche se per ignoranza possiamo ritenere che non sia così.
Dobbiamo guardare con cura nella natura di ogni fenomeno, in modo da comprenderne la relatività. Quando gettiamo un’esca nel fiume, sappiamo che in quell’esca c’è un amo, e speriamo di ingannare il pesce. In effetti il pesce è ingenuo, perciò non abbiamo bisogno di usare un’esca vera. Ci è sufficiente agganciarne all’amo una di plastica.
Se il pesce sapesse come osservare la natura ingannevole delle cose, riuscirebbe a individuare l’amo nascosto nell’esca e ne comprenderebbe la natura “non degna di essere desiderata”.
Il Buddha ha detto che ci sono cinque tipi di desideri mondani: potere, denaro, sesso, fama e buon cibo. La maggior parte di noi ha sofferto a causa del desiderio di un cibo appetitoso: mangiamo una pietanza perché ha un buon sapore, ma dopo soffriamo moltissimo. Solo allora iniziamo a vedere che tutto ciò non è degno del nostro desiderio.
Il Buddha nei suoi discorsi ci ha offerto molti esempi: il desiderio è come una torcia che reggiamo controvento, la cui fiamma soffia all’indietro e ci brucia; il desiderio è anche un osso senza carne che, rosicchiato dai cani giorno e notte, non dà alcun nutrimento.
Dopo aver guardato in profondità nell’impermanenza, possiamo osservare a fondo la natura “non desiderabile” delle cose che vogliamo per capire come portino con loro pena e sofferenza.
Il Buddha ha anche narrato la stora di un assetato che aveva visto dell’acqua rosa, molto profumata. Nonostante fosse stato avvisato che quell’acqua gli sarebbe stata fatale, egli la bevve e morì. Questo è l’effetto dei desideri dei sensi. Dobbiamo perciò ricordarci di mettere in pratica le parole dei sutra con l’aiuto del Sangha.
Se abbiamo la presunzione di farne a meno, intraprenderemo facilmente il sentiero errato, inseguendo i cinque desideri mondani. A questo proposito è anche utile chiedere a chi ha sofferto molto, a causa dei propri desideri, di parlare della propria sofferenza. È un modo eccellente per capire cosa si rischia, soprattutto nel caso in cui non vi siate ancora addentrati in quel regno di sofferenza e pensiate che sia una buona meta.
Proseguiamo ora con il quindicesimo esercizio:
“Inspiro e contemplo la natura di non nascita e non morte di tutti i dharma.
Espiro e contemplo la natura di non nascita e non morte di tutti i dharma”.

Il termine nirodha significa “non nascita e non morte”, ma anche nirvana. Iniziamo a entrare in profondità nell’oggetto della nostra meditazione: dopo aver compreso l’impermanenza e la natura non degna di desiderio dei dharma, giungiamo al nirodha, che è la cessazione, l’estinzione di nascita e morte. Inizialmente osserviamo che le cose nascono e muoiono, hanno un inizio e una fine, un essere e un non essere.
Il più grande dovere di un praticante è proprio andare oltre il mondo di nascita e morte ed essere parte dell’incodizionato.

Commento del  Maestro Thich Nhat Hanh, tratto da due discorsi sul Dharma tenuti il 18 e 22 gennaio 1998 a Plum Village.

Fonte: www.fiorediloto.org

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